PRIMO GIORNO DELL’ANNO   

Capodanno (da “caput anni”) e Gennaio (Januarius, mese del dio Giano bifronte) sono nomi di origine romana; il dio Giano con i suoi due volti imper­sonnava il passaggio dal vecchio al nuovo anno (un viso infatti è vecchio e bar­burto e rappresenta l’anno vecchio; l’altro è giovane e sta per l’anno che inizia).In passato era un giorno lavorativo e si riteneva indispensabile che nel corso della giornata si desse inizio ad ognuna delle attività che sarebbero state poi svolte durante l’anno (“intaccare sos trabaglios”); ricordo che mio padre, ben­chè il giorno fosse divenuto ormai festivo, entrava in falegnameria dove mette­va in moto tutte le macchine e “toccaiada sos ferros”, cioè prendeva in mano alcuni attrezzi. Quest’usanza è di origine romana; infatti Ovidio riporta: “con­sacrerai al lavoro l’anno che appena comincia perché non s’auspicasse tutto l’an­no ozioso. Per tutto il giorno si ripetevano gli auguri alle persone che si incontravano per strada, e a quelle che si andava a visitare appositamente, con formule più o meno standardizzate “Ateros annos rnezus, a supiaghere bostru” oppure “Bonosprintzipios e mezusJìnes”. Era la giornata delle previsioni, per cui si diceva che ciò che acca­deva quel giorno ad una persona, le sarebbe poi successo per tutto l’anno; era quindi necessario tentare di evitare cose sgradevoli. Le ragazze da marito appena alzate dal letto si affacciavano alla porta o alla finestra; la prima persona che vedevano passare indicava il nome del futuro mari­to (vedi anche i rituali di San Giovanni). Dai primi 12 giorni di gennaio si taeva­no le previsioni del tempo per tutti i mesi dell’anno (così, se il primo giorno pio­veva, si prevedeva pioggia per tutto gennaio). Ad Ollolai venivano chiamati “sar dies de sa horona”. A Pattada i capifamiglia, quando rientravano dal lavoro, spezzavano “su cabude” sulla testa del più piccolo mentre tutti auguravano “a chent’annos” (in tempi più remoti si spezzava sul primogenito) e pare che in base a come la rottura avveniva gli anziani traessero gli auspici per l’anno nuovo. A Samugheo i bambini andavano in giro per le case per ricevere in dono del grano bollito e seccato oppure della frutta secca. A Bessude i bambini si preparavano i ceci tostati (“asolu tundu turradu”) oppure “sas rosas” ovvero del granturco cotto nello strumento usato per tostare il caffè (“su bruiagaffè”) o in un crivello (“su chiliru”) Ad Ollolai le donne andavano prima dell’alba alla fonte grande (“sa untana manna”) e gettavano nella prima delle tre vasche alcuni prodotti dell’agricoltura e della pastorizia assieme a qualche mone­tina dicendo: “che so ghettande husta grassia de Deus, e Deus sas grassias nos ad-a dare, hundantes humente est bundante s’abba, humente hurret s~ibba in sa bena, hurrant sas grassias; hun2ente est hurrende s~iba, gai hurrat sa fortuna; huìnente cha’nus holau s~tn­nu bezzu, che ho/emus su nobu”.
   

EPIFANIA (“PASCA DE  ANNUNZIU ") 

La notte del 5 gennaio, alcuni gruppi giravano per il paese cantando “sos tres res si tratta di un canto di questua reso sacro, in epoca cristiana, dal compito di portare la “buona novella” nelle famiglie (similare l’usanza di cantare “A Gesus in allegria”) sempre ripagato con doni. Paolo Toschi riporta in “Folcl4ore” che ricevere doni è segno augurale di pro­sperità per tutto l’anno e l’usanza dello “strenarum commerciunì” dei latini si ètrasformata in scambio di doni eseguito durante le festività maggiori. Ritornando al canto rituale di “sos tres res”, quando i cantori pronUflclavaflo le parole “zoccau su portale beneittu”, uno di essi bussava alla porta che i padro­ni di casa aprivano aspettando la fine della canzone per proporre al gruppo di entrare. Pare che nella prima metà del 1900 ogni gruppo, prima di iniziare il giro del paese, cantasse fuori dalla casa del parroco; probabilmente si voleva o doveva sacralizzare “l’annuncio” che nella notte si sarebbe portato alle famiglie del paese. Il giorno dell’Epifania~ poco prima o durante il pranzo~ il capofamiglia spez­zava sulla testa del figlio più piccolo “su cabude”, un pane rituale a forma umana che veniva subito tagliato a fette e in parte distribuito ai parenti in segno di buon augurio; il resto si “untinava” insaporendolo con l’olio caldo che trasudava dai pezzi di lardo e di salsiccia infilati nello spiedo e cotti arrosto (per le donne si pre­paravano “sas affestas” un tipo di pane circolare molto simile come lavorazione al “cabude”). Pare che l’Epifania sia chiamata anche “Pasca in untis” propio per il rituale di “untinare su cabude. A Bonnanaro vi era la tradizione di non lavorare confermata dalla fìlastrocca: pasca in untis, in untis untada, nè lettu fattu, nè domo mundada, nè pudda nde falat dae s’iscalitta”; a Romana si preparava invece un pane detto “Su Acchiddu”; a Bessude la notte si mettevano mandarini e frutta secca sotto il cuscino dei bam­bini mentre dormivano. A Pattada i grandi proprietari terrieri preparavano tante “peltusittas” quanti erano i loro pastori e tante “juadas” quanti erano i lavoratori dei campi (“sos jualzos”): sas peltusittas e sas juadas erano dolci augurali sui quali le donne riportavano con la pasta immagini di buoi, aratri, contadini, oppure pecore, cani, pastori. Sia i contadini che i pastori spezzavano i dolci sul capo dei buoi in segno beneaugurale e poi li riportavano a casa per essere consumati dalla famiglia (tale rituale si riscontra a Nughedu S.N. in forma similare ma eseguito il 1° giorno dell’anno).

CARRASEGARE - CARNEVALE

Dolores Turchi individua nel carnevale diversi residui degli antichi riti dionisia­ci (morte e resurrezione del dio Dionisio e parallelamente della natura) ed ipotiz­la possibilità che anche il termine “carrasegare” abbia attinenza con tali ritualiche prevedevano un sacrificio (umano o animale) eseguito strappando la carne senza l’uso di coltelli: “carre segare” ovvero strappare la carne. Giustamente l’autri­ce precisa che solo la carne umana viene indicata col termine “carre” mentre quel­la animale si chiama “petta o petza” (Maschere, miti e feste della Sardegna). Un vago ricordo di questi riti cruenti pare sia rimasto nell’antica tradizione carnevale­sca di “sos puddos de carrasegare”, non più in uso da diversi decenni ma dei quali sono rimasti attuali molti modi di dire: “ancu ti fettan (o anche: si sun fattos , In sezis giutende, sempre in mesu, ancu ti gioghent) che puddu de carrasegare”. Zio Giovangiacomo Uneddu ricordava di aver visto (o forse sentito) appendere un pollo a testa in giù che i gareggianti a cavallo (forse bendati) tentavano di huttar giù a colpi di bastone ‘in su addiju de Nostra Signora (di Seunis)”; zio Filippo Por­queddu ricorda che si tirava col fucile, aspetto confermato da testimonianze di Bonnanaro che ricordano i fucilieri a cavallo. Lusanza era praticata anche a Pozzomaggiore (ma non abbiamo indicazioni certe), a Macomer dove viene chiama­ta a currer 505 puddos” e a Nughedu S.N. col nome sa mina a su puddu”. Il carnevale iniziava il giorno della Befana “Pasca in untis” con balli in piaz­za in ogni rioiie che si ripetevano i giorni festivi sino alla domenica di carneva­lone detto “carrasegareddu”. Si ballava anche in sale allestite per l’occasione (“sos sozios”) da privati che intendevano guadagnarci o da gruppi di beneficen­za. Zia Maria Crahuzza li ricorda attivi già dai primi anni del 1 900, mentre zio Antonio Maria Delogu ricorda “sos sozios” organizzati per finanziare il monu­mento ai caduti, dopo la prima guerra mondiale. Non erano rare le sfilate in maschera: c’erano anche “sas mascheras de caddu”, cavalieri mascherati varia­mente con cavalli riccamente addobbati. Il modo più semplice per mascherarsi era quello di coprirsi il viso con fuliggine usando un pezzo di sugherone bru­ciato o di vestire vecchi abiti ormai inservibili (D. Turchi ritiene che tingersi il viso con “su eldone” abbia il significato di abbondanza e prosperità,- “Masche­re, miti e feste della Sardegna”). Si è riscontrata l’usanza maschile, attiva nella prima metà del 1900, di mascherarsi indossando una gonna gialla (sa tuniga groga) sopra i pantaloni, con un grembiule nero (sa falditta de tulbè nieddu) e, nella parte alta una camicia bianca. Considerato che la gonna gialla era l’abbi­gliamento tipico delle vedove, parrebbe si intendesse rappresentare la donna vedova e non la donna in generale. Il  carnevale spesso era particolarmente trasgressivo per cui capitava che alcuni, protetti dalle maschere, facessero pesanti scherzi o procurassero danni alle perso­ne e alle cose. Le famiglie non le accettavano in casa se le maschere non erano accompagnate da una persona col viso scoperto (“su postadore”) che garantiva personalmente per il gruppo. Il giovedì grasso (“gioja lardaiolu”) si mangiavano (ma l’usanza è attiva ancora oggi) le fave con lardo e fìnocchietti, in passato con “limbuda e lansana”. L’ultimo giorno di carnevale, il martedì sera, si bruciava in piazza “Giolzi” ovve­ro un grande pupazzo ottenuto con vecchi vestiti imbottiti di paglia; Dolores Tur­chi riconosce in “giolzi” il Dionisio e nel falò la sua morte, necessaria perché, come il seme che muore nella terra, possa poi rinascere e germogliare. Nel libro “Nughe­du S.N.” si riportano i versi finali di “su attitidu a giolzi” eseguito da “sa mama atti­tadora” e dal coro di “sos dolidores” la sera del mercoledì delle ceneri. 11 fantoccio veniva poi sepolto in un letamaio (chiaro riferimento al rito di rigenerazione). Particolare la tradizione di Romana di “sas ammoradas”, nella quale tutte le ragazze nubili vengono messe all’asta ed hanno poi l’obbligo di ballare con il vin­citore; con i soldi raccolti si organizza una festa alla quale possono partecipare tutte le ragazze nubili e i giovanotti che hanno partecipato all’asta .
 

Pagina 1.2.3.4.5