INIZIA LA VITA: LA GRAVIDANZA   

Durante la gravidanza, per evitare che apparissero degli angiomi cutanei (le cosidette “voglie”) su parti visibili del nascituro, la mamma, quando desiderava qualche cibo che non poteva ottenere, doveva toccarst nei capelli, nelle natiche o in parti che generalmente sono coperte dai vestiti, facendo attenzione soprattutto a non toccarsi il viso.
Non bisognava girare intorno ad una donna incinta perché ciò avrebbe fatto attorcigliare il cordone ombelicale; quando avveniva era necessario, per rimediare all’inconveniente, rifare il percorso all’incontrano. A Natale alle donne in attesa era consigliato di andare alla messa di mezzanotte per evitare che il figlio nascesse malato. A Nulvi si credeva che l’eventuale malformazione o malattia sarebbe scomparsa durante la messa, mentre a Pattada si pensava che avrebbe favorito l’aborto del bambino deforme.
A Nulvi la donna in attesa si proteggeva portando al collo delle medaglie (“sas affoltiscias”) o facendosi fare “sa meighina de s oiu
Per conoscere il sesso del nascituro si osservava la pancia: se aveva forma rotondeggiante conteneva un maschio; se invece appariva appuntita ~ conteneva una femmina. A Nulvi contavano “sas puntas de sa luna” ovvero se la nascita era prevista di luna piena, sarebbe stato maschio, se nel novilunio (“luna pizzinna ), femmina; a Nughedu S.N. e a Tempio, si chiedeva a sorpresa alla donna incinta di far vedere cosa avesse in mano: se istintivamente mostrava il palmo, sarebbe nata una femmina, altrimenti un maschio; a Luras, la gestante prendeva dal sacco un pugnetto di grano e ne contava i chicchi: il numero dispari indicava un maschio.

 

- NASCITA 

Quando stava per nascere un bambino, alle prime doglie, si aprivano porte, finestre, cassetti, mobili perché si favoriva l’arrivo del piccolo. Per proteggerla dai pericoli del parto si dava alla partoriente “su siddu” ovvero una pietra lavorata (forse una pietra dura) che derivava il suo potere dall’esser stata prelevata dalla bara di un defunto. Si dice che durante l’ottocento a Thiesi il becchino recuperasse questi oggetti dietro pagamento. La famiglia che ne possedeva uno generalmente prestava l’amuleto chiedendo in pegno qualche gioiello d’oro per garantirne la restituzione. Zio Filippo Porqueddu dice che “siddu” significa anche luogo riparato o protetto; sembra evidente l’analogia con l’amuleto che proteggeva la partoriente dai mille pericoli del parto.
Tia Giuanna Chessa, mamma de tiu Diegu Ispanedda, pare eseguisse i pronostici del parto con “sa rosa de Santa Rosa”: metteva a bagno una delle rose secche, benedette durante la festa; se la rosa si apriva bene, il parto sarebbe stato facile, in quanto “si abberiat puru su partu”.
A Nulvi sotto il cuscino della partoriente si mettevano delle forbici o un pezzo di pane per allontanare il malocchio dal neonato e se la mamma moriva, nella bara si metteva l’occorrente per cucire perché nell’aldilà trovasse pace preparando i vestitini per il figlio. A Romana il bambino appena nato si sottoponeva al “bagno della fortuna” immergendolo in un catino con dell’acqua dove fossero state immerse delle monete d’oro; A Nughedu S. Nicolò si ricorreva a “su manteddu de Sant’Antoni” un paramento sacro che si poggiava sul ventre della partoriente.
Le persone che non venivano impegnate attivamente nel parto in genere recitavano il rosario. Se il bambino nasceva con la camicia (“cun sa beste”), questa veniva raccolta e sistemata in uno scapolare (“unu breve”). In passato ai neonati si appendeva un piccolo bastone di legno detto “su bacculu de Santu Bacchis” che li avrebbe protetti nei primi anni di vita.
Quando cadeva il cordone ombelicale era necessario ed importante raccoglierlo dentro un fazzoletto e bruciano. La nonna andava a trovare il nipotino appena nato portandogli un uovo e gli diceva: “sias pienu comente custu ou, cun abbundantzia e cun salude”; gli altri si limitavano all’augurio “mama diciosa e babbu diciosu”; oppure “mama diciosa de custu e de SOS ateros chi ana a benner”. Bisognava evitare di dire che il bambino era bello, ma solo “Deus lu muntenzat" ’; solo così si proteggeva dal malocchio. Quando la puerpera (“sa pastolza”) si alzava dal letto le si augurava “Forte che ferru, lenta che chelvu”; oppure “Forte che ferru, fine che ispola, lebia che crabola” mentre le si dava un pezzo di ferro in mano. Nel libro “Lo sciamanesimo in Sardegna” si aggiunge che “le si metteva in mano uno spiedo di ferro, confidando nel potere magico e nella forza che questo metallo conteneva”. Pare che la frase di augurio sia un frammento di una invocazione alla luna che si pronunciava rivolgendosi all’astro celeste, dopo essersi fatto il segno della croce. A Nughedu S.N. si salutava la partoriente con l’augurio: “Arvure de chentu fozas, crescat su chi ch’est nadu, e salude a sa pastolza” inoltre, per proteggere il neonato dagli spiriti nefasti, dentro “su banzigu” gli si metteva sa barra de su erittu” una mandibola di porcospino e una coppia di spiedini privi di punta sistemati a croce ai suoi piedi. A Nulvi le donne che trovavano difficoltà nell’avere figli, si rivolgevano a “sas maialzas” che fornivano vari talismani e amuleti, o al prete che invocava sant’Antonio di Padova. Sempre a Nulvi, dopo il parto, la madre doveva andare in chiesa per la purificazione e se andava al ruscello a lavare non doveva tenere i piedi immersi nell’acqua. Al bambino si metteva “sa camijiola” al rovescio e nella culla (“su banzigu”) una collana di spicchi d’aglio.

- IL BATTESIMO

Era necessario battezzare entro la prima settimana dalla nascita e se ciò non avveniva il sacerdote si limitava a celebrare il rito senza partecipare alla festicciola successiva che comunque in questo caso era ridotta al minimo. Se si battezzava lo stesso giorno della nascita, la immediatezza del rito avrebbe salvato un familiare dal purgatorio (si nde ogaiat un’anima dae sas penas de su pulgadoriu). Alla ceri­monia non partecipava la madre sia perché ancora degente, sia perché non anco­ra purificata. Lacqua calda da versare sul capo del battezzando era portata da una bambina dentro una lattiera poggiata su un vassoio (“su piattu a conzeddu”; a Tempio: “s’affuenti”). Il bambino appena nato doveva uscire di casa solo per esse­re battezzato e pare che non si dovesse battezzare con acqua santa nuova perché ne provocava la pazzia. Spesso a fare da padrini erano gli stessi nonni; forse per questo motivo i padrini in passato venivano chiamati “nonnu e nonna” mentre i veri nonni venivano chiamati “jaiu e jaia”. In passato si reputava importante che i neonati fossero presi in braccio dalla madrina per favorirne la crescita. A Nulvi non poteva fare da madrina una donna incinta perché sarebbe deceduto uno dei due bambini. La madre, dopo la nascita del primo figlio, la prima volta che usciva di casa, doveva recarsi in chiesa per il rito di purificazione (“a s’incheiare”); vi si recava con altra persona che teneva il figlio già battezzato. Una volta in chiesa il parroco le andava incontro, lei prendeva un lembo della stola e insieme si recavano alla cap­pella della Madonna di Lourdes.

Lì il parroco recitava delle preghiere e dava la benedizione. Si rientrava a casa senza parlare con alcuna persona (stessa regola per l’andata). A casa la donna si lavava simbolicamente le mani in un catino e versava l’acqua nella via rivolgendola verso il basso (si raccomandava di non versarla verso la parte alta della via). Per gli altri figli il rito di purificazione si limitava alla recita di qualche preghiera che la mamma da sola recitava in chiesa.
Se una puerpera moriva nel dare alla lLlce il figlio, per alleviarle la preoccupazione di aver lasciato il figlio solo, le si mettevano nella bara gli attrezzi del cucito per consentirle di preparare vestitini al neonato. In alcuni casi si segnala che l’anima di una mamma morta durante il parto troverà pace solo se per sette anni andrà al fiume per lavare i panni del figlioletto; se sarà interrota da un essere vivente, dovrà riprendere da capo. Dolores Turchi, nel libro “Lo sciamanesimo in Sardegna” dedica un capitolo alle “panas o pantamas” ovvero agli spiriti di donne morte di parto. Conferma la credenza popolare che il loro spirito non trovava pace se non lavava ogni notte per sette anni di seguito i suoi indumenti insanguinati o quelli del figlio. I]autrice inoltre riferisce che l’attrezzatura per il cucito che si metteva nella bara, aveva lo scopo di tenerla impegnata, evitandole di andare in giro durante la notte. A Thiesi col termine “pantaminas si indicano gli spiriti vaganti e non si fa più riferimento alle donne morte di parto.
 
 

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